Una TRATTORIA DI FINE ‘800 sull’appennino bolognese?

Durante una delle mie “scorribande” sull’appennino emiliano a caccia di edifici medievali, mi sono imbattuta con l’ottima studiosa indipendente Rita Lotti nei possibili resti di una trattoria di campagna in località “Villa Prada” in comune di Grizzana Morandi, il paese natale del famoso pittore specializzato in nature morte con bottiglie.

Una lanterna che ondeggia nella notte…

Il complesso della sospetta trattoria comprende due edifici decisamente significativi, oggi purtroppo abbandonati e pericolanti.

L’edificio più grande, probabilmente corrispondente all’abitazione vera e propria, presenta un interessantissimo portale con stipiti e architrave in pietra, un piccolo sopraluce rettangolare sorretto da un secondo architrave e infine – al di sopra di questo – un piccolo archetto di scarico (sordino) di mattoni (Foto 1). Subito sopra al sordino si trovano anche le tracce di un elemento in ferro o legno, infisso nella muratura e successivamente tagliato a filo di questo, a cui corrispondono sull’architrave del sopraluce vistosissimi solchi semicircolari, evidentemente prodotti dallo sfregamento di un oggetto appeso, molto probabilmente una lanterna mossa dal vento (Foto 2).
Questo è il primo indizio del possibile uso dell’edificio come osteria e/o locanda, un uso protrattosi talmente a lungo da consentire alla lanterna di incidere la propria traccia nella pietra: anticamente infatti, prima dell’introduzione su larga scala dell’illuminazione pubblica (avvenuta a varie riprese tra la fine del XVII e l’inizio del XIX secolo), le uniche fonti di luce notturna – sia in città sia, a maggior ragione, nei paesi e nelle campagne – erano i ceri e lumini votivi perennemente accesi davanti alle edicole sacre, e appunto le torce o lanterne davanti alle locande e alle osterie: questi, gli unici esercizi pubblici aperti anche di sera, dovevano infatti essere facilmente localizzabili e raggiungibili dagli avventori anche nell’oscurità più completa che caratterizzava le strade cittadine. Questa necessità nelle campagne era ancora più importante, perché essere sorpresi dal buio lungo strade sconosciute avrebbe comportato il rischio di essere derubati o di incappare in qualche incidente come finire in un fosso o in un dirupo, con conseguenze facilmente prevedibili: per i viandanti era quindi necessario raggiungere al più presto un posto sicuro in cui rifocillarsi e alloggiare per la notte.

Nel XIX secolo le osterie di campagna erano perciò diventate un posto molto importante per due ragioni ben precise.
Innanzitutto, svolgevano un servizio fondamentale per chi viaggiava, in particolare carrettieri e barocciai, artigiani e venditori ambulanti (un tempo decisamente numerosi), facchini, pastori, boscaioli, guardiacaccia, cantonieri, addetti al servizio postale, postiglioni e passeggeri delle diligenze, pellegrini diretti a qualche santuario locale e contadini che andavano in città per fare affari e vendere le proprie mercanzie: in questi luoghi infatti si poteva consumare un pasto caldo, far riposare gli animali, comprare generi diversi e talvolta anche alloggiare per la notte, far riparare il carro o ferrare muli, asini e cavalli. I servizi offerti variavano per numero e qualità in base al tipo di locale: le osterie vendevano soprattutto vino da accompagnare con spuntini semplici e veloci, mentre nelle trattorie si poteva consumare un pasto caldo completo. Nei punti più trafficati – ad esempio in corrispondenza di santuari particolarmente venerati, ponti e crocevia – l’osteria tendeva invece trasformarsi in una vera e propria stazione di posta, offrendo anche il servizio locanda (con stanze da affittare per la notte), rivendita di generi diversi, ufficio postale e officina con fabbri e maniscalchi.

L’osteria costituiva però anche il centro della vita sociale degli abitanti della zona, con gli uomini che vi si rincontravano dopo il lavoro per giocare a carte, leggere il giornale, discutere e bere un bicchiere in compagnia.

Una sala tinteggiata a “calce blu”…

Il secondo indizio che rende possibile l’identificazione del nostro complesso con una trattoria è proprio la sua posizione, sul ciglio dell’attuale Strada Provinciale 73 e a pochissima distanza da Villa Prada, un imponente corte rurale del ‘500 che in epoca più tarda possiamo ipotizzare trasformata in una vasta tenuta agricola a cui dovevano far capo numerosi poderi condotti a mezzadria, con conseguente via vai di dipendenti, braccianti e servitori.

Anche l’interno dell’edificio principale – quello con le tracce di lanterna sull’architrave dell’ingresso – risulta decisamente interessante (sebbene purtroppo completamente abbandonato e urgentemente bisognoso di restauro) e, oltre alla scala di accesso al piano superiore, mostra due ampi locali: uno adibito a cucina e uno, di destinazione d’uso ignota, con il soffitto e le pareti completamente tinteggiate acalce blu” (Foto 3). In origine doveva trattarsi di una stanza piuttosto confortevole, con i muri ben rifiniti e tinteggiati, il solaio a doppia orditura con travi sbozzate grossolanamente ad ascia (Foto 4), un controsoffitto di canniccio intonacato (detto “arellato” nell’edilizia tradizionale bolognesi – Foto 4) e alcune finestre protette da inferriate (Foto 4).

 

La calce blu o poltiglia bordolese, come abbiamo già detto in un post precedente, era molto comune negli edifici rurali ottocenteschi per vari motivi:
1) era una tinteggiatura molto economica e facilmente reperibile, perché i contadini la preparavano da soli con latte di calce o grassello e solfato di rame per usarla come fitofarmaco per difendere la vite gli alberi da frutto dalla peronospera, una pericolosa malattia;
2) aveva un colore assai piacevole alla vista;
3) si riteneva che l’azzurro e il blu scacciassero le mosche e avessero un certo potere disinfettante, ragion per cui si tendeva a preferire questo colore per la tinteggiatura interna ed esterna di stalle, granai, cucine e “tinelli”.

In questo caso, poiché la destinazione d’uso a stalla va esclusa per le caratteristiche costruttive e il grado di rifinitura della stanza, una tinteggiatura azzurra sarebbe sembrata la scelta più adeguata per un locale in cui si potevano radunare molte persone per bere e mangiare, attirando numerose mosche.

…e l’insegna scolpita  nella pietra!

Naturalmente ogni locanda, osteria o trattoria aveva una propria insegna che ne indicava il nome e – spesso – anche i servizi offerti. Nel XIX e nei primi decenni del XX secolo queste insegne erano spesso costituite da tavole di legno mobili o scritte dipinte sull’intonaco: nei miei viaggi per borghi e paesi ho trovato due esempi di questo tipo a Caluso in provincia di Torino (Foto 5) in un piccolo paese del Trentino (Foto 6).

 

Nel caso degli edifici che stiamo analizzando, la probabile insegna – a mio parere forse l’indizio decisivo del fatto che qui ci fosse un’antica trattoria – si trova nell’edificio secondario, proprio in corrispondenza di un contrafforte al centro della facciata laterale (Foto 7), in un punto immediatamente visibile avvicinandosi al complesso. Si tratta di un concio di arenaria, ben squadrato e rifinito, in cui sono stati incisi a bassorilievo una bottiglia, un bicchiere e una scodella (Foto 8). Le incisioni sono rozze e stilizzate, ma comunque dettagliate: la bottiglia (una via di mezzo tra un fiasco e una champagnotta) sembra infatti munita di turacciolo, il bicchiere – il classico modello da “osteria” di forma tronco-conica di vetro liscio – è raffigurato “in prospettiva” e la scodella è in realtà un “piatto fondo” da minestra. Il messaggio – immediatamente comprensibile anche a persone analfabete – è perciò chiarissimo: qui si beve vino e si mangia una minestra calda. Sembra dunque trattarsi dell’insegna di una trattoria.

Sopra l’insegna, ma decisamente più in alto, si nota anche un secondo concio di pietra con una piccola nicchia ad arco (Foto 9), originariamente destinata a una statuetta o bassorilievo in pietra, terracotta o maiolica invetriata con l’immagine della Madonna o di qualche santo locale o tradizionalmente venerato da contadini come Isidoro patrono degli agricoltori o Antonio Abate protettore del bestiame. Era un’usanza comunissima e in quasi tutte le antiche case della campagna bolognese si trovano nicchie di questo tipo, normalmente poste sopra o a fianco dell’ingresso principale.

Subito sotto la nicchia si trova infine una vera e propria tabella di possesso, le cui incisioni eseguite a perfetta regola d’arte contrastano nettamente con quelle – di qualità nettamente inferiore – dell’insegna vera e propria: vi si legge il nome Turrini, la data 1889 e alcune lettere in eleganti caratteri corsivi maiuscoli tipicamente ottocenteschi (Z? R E Z? Z? O nella prima riga, e N D C Z? nella seconda Foto 9). Poiché il tipo di pietra e di lavorazione dei conci sono molto simili, possiamo ipotizzare che tutti e tre gli elementi lapidei (insegna, nicchia votiva e tabella di possesso) siano contemporanei fra di loro e databili al 1889. Più capire l’identità della famiglia Turrini, ma, poiché Villa Prada è anche nota come “Palazzo Turrini”, possiamo supporre che:
1) si trattasse dei proprietari dell’intera tenuta;
2) che l’edificio fosse quindi stato affittato ai suoi abitanti (probabilmente identificabili con l’oste e la sua famiglia);
3) che l’insegna sia stata incisa da mani diverse e forse in un momento leggermente posteriore rispetto all’apposizione della “tabella di possesso”.
Il significato delle lettere corsive sulla tabella si possesso mi è invece completamente ignoto.

Aggiornamento del 14 giugno 2o21 – La lettrice Giulia Eirene Campagnari (che ringrazio moltissimo per la precisazione) via facebook suggerisce quanto segue: “Interessante l’insegna! Quanto all’iscrizione, ci leggerei piuttosto “1889 ERETTO TURRINI NDCT” – mi sembrava doveroso riportare questa ipotesi per una migliore opera di divulgazione. Questo mi dice due cose:
1) devo (ri)studiarmi le lettere maiuscole corsive, che non pratico più o meno dalle elementari (lacuna mia, ovviamente)
2) mai dare nulla per scontato, ma perdere la voglia di imparare e soprattutto una sanissima dose di umiltà!

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