Una testimonianza orale sulla FABBRICAZIONE DEI LATERIZI

Dopo il mio post sulla fornace da laterizi della famiglia Rosi di Calliano, la moglie di Eugenio, Tamara Marzari, mi ha segnalato un interessantissimo video su Youtube in cui l’ormai anziano signor Rosi accompagna una scolaresca a visitare la fornace, chiamata localmente copéra (da coppi, cioè le tegole).

Dato il grandissimo valore documentario di questa testimonianza ho deciso di divulgarla, tentando anche una trascrizione del video parola per parola per renderlo più comprensibile.

La testimonianza del signor Rosi

Il video contiene l’audio integrale della visita guidata alla copéra e numerose fotografie degli strumenti di lavoro e di alcuni particolari costruttivi della fornace. Nel dialogo si sentono chiaramente il racconto del signor Rosi, i commenti e domande di uno scolaro e alcuni colpi secchi, probabilmente dovuti alla fabbricazione estemporanea di un mattone.

Ecco la mia trascrizione integrale:

Signor RosiQueste sono le piòve [piogge?] dove praticamente gh’era una fornace. Una volta – questo sentito dai vecchi – l’Adige l’è vegnù fin qua prima chi lo sistévan [sistemassero?]. Ci lavorava mio cugino per due famiglie unite e ha smesso nel ’45 a far.

FOTO 1 – Il signor Rosi mostra gli stampi la fabbricazione di coppi (il trapezio in filo metallico) e mattoni (le “cassettine” rettangolari senza coperchio).

L ‘argilla si andava a prenderla in cima dopo… dopo la strada della montagna lì… dentro lì che nel posto dell’argilla… [seguono alcune parole in dialetto purtroppo per me incomprensibili] nel palù [palude, acquitrino] a scavarla la cosa dopo resteva la fossa ah… perché bisognava andar giù almeno… quattro metri per tirar su l’argilla buona. Tutto a mano, tutto a mano col bue o con un cavallo, coll’asino. Preparava l’argilla, lavorata, perché la voleva [serviva] lavorata. E dopo, che era anche il discorso che ci voleva… eh… come se dis… la léa [limo]. X’era l’Adige a tòrla [prenderla]: un sabbione… fino… quello che porta l’Adige praticamente, che bisognava andar di notte perché s’i te vedeva i te metevan in preson [ti mettevano in prigione].

Quando che aveva fatto la malta [l’impasto di sabbia e argilla per i mattoni] c’era un bancone grande: ecco lì con le mani tagliavano il pezzo necessario per il mattone lì… i lo metteva dentro qua il mattone [Foto 1] i ghe deva [dava] due colpi così che si riempisse bene. Prima bisognava oliarlo con quella sabbia che vi disevo perché non si stacca più l’argilla no… Quando l’era pieno si tagliava via liscio… qui [Foto 2]… ecco il mattone era pronto… Andavi lì, facevi così ecco… e restava lì il mattone.

BambinoBello!

FOTO 2 – Il signor Rosi mostra lo strumento, costituito da un archetto di legno con un filo, con cui si eliminava l’eccesso di argilla dallo stampo per mattoni

Signor Rosi – Dopo non era mica finita no, dopo bisognava tirarlo in piedi perché era il posto per il giorno, dietro che s’asciuga un po’. Dopo… saria [sarebbero] robe che…

BambinoMa l’argilla per terra non si attaccava a tutti i sassi?

Signor Rosi – Eh no bisognava fare il coso piano eh… se no si piegavano… e dopo asciugarli… dopo… Poi il lavoro che féva mì [facevo io] quando che gh’eran insomma, andarghe dietro, lì, a levarli in piedi che si sciugano per l’orlo. E dopo [alcune parole incomprensibili] bisognava venire apposta qua… ecco qua si toleva su il mattone. Mattoni alti così, eccoli: tutti chiusi. Quand’era il periodo del coso bisognava staccarli che si asciuga bene, lasciarli larghi insomma che passa l’aria. Praticamente si toleva man tre o quattro volte. E s’impegneva tutto.

E dopo, quando che era ora di cuocerli, ghe voleva una giornata due di nuovo a fare i volti del fuoco perché c’è uno che era esperto, se no niente da fare [probabilmente queste parole si riferiscono al riempimento del forno, che andava affidato a un artigiano specializzato ed eseguito a regola d’arte per non compromettere la cottura].
Questa è la fornace, questa, dove si mette i mattoni a cuocere. Ecco quelle lì son le bocchette dove si accende il fuoco
[Foto 3]: sarìa [sarebbero] una lì e una qua che non si vede, due. Quelle là sono le spie per vedere se cuociono, ecco.

Bambino – Bella!

FOTO 3 – Una delle bocche da fuoco della fornace

Signor Rosi – Questa… il lavoro più grande, l’è quando si mette a st’altezza qua dove circola il fuoco: vuol un esperto insomma perché sennò la casca tutta eh [anche in questo caso le parole si riferiscono probabilmente alle pile di mattoni disposte sulla suola della camera di cottura]. Ventimila ghe sta dentro eh, ventimila mattoni. Consegneven quattro o cinque prede… [pietre, in questo caso riferite ai mattoni] Se rompeva un copo [coppo]… A parte che non feva gnanca [non li facevamo nemmeno – si riferisce ai coppi – Foto 4], pochi giusto per… per… non so… perché era un lavoraccio eh.

Bambino – Il fuoco rimaneva acceso anche di notte?

Signor Rosi – Si, tre giorni e tre notti, di continuo, non ci voleva né fumo né umidità, perché la fornace come fumava era finita eh: bisognava scaricarla e farla di nuovo. Asciugare, generalmente quei che si faceva adesso se li cuocevano a maggio, giugno dell’anno dietro: restavano quasi… delle volte anche due anni. Si cercava di venderli prima di prenderli in mano un’altra volta. Si tirava fuori dalla fornace: tre giorni e tre notti ghe voleva a cuocerli, settanta quintali di legna. Praticamente se cercava un periodo che generalmente eh… non piovesse, non venisse vento…

Bambino – Ma che non piovesse perché si inumidiva?

Signor Rosi – No, perché se no se il fuoco fumava li rovinava tutti: come tàca [si attacca] il fumo su un mattone non si cuoce più. Era un lavoraccio insomma, ecco. Ma adesso, chi è che potresti farghelo fare adesso? Quando si faceva i coppi, per esempio, bisognava attenderghe [stare attenti] ai gatti.

Bambino – Si perché anche al museo dove siamo andati a vedere c’erano tutti i coppi con su tutte le stampe [impronte] dei gatti.

Signor RosiPerché come montava su un gatto [il coppo] era rovinato: è come quando… quando che si cuoceva… lì c’era sempre l’acqua lì perché si adoperava per.. per… lavorare l’argilla: ecco, c’erano le rane, i rospi, ecco. Quando vedevano il fuoco la notte volevano venir dentro nel fuoco Dio bono! C’era gente perché allora gh’era tanta gente a piedi, colle biciclette, non c’erano mica le macchine no… Ecco si fermavano, qui, a guardare, n’era più ‘musonir [c’era meno gente che faceva la scontrosa] una volta… la gente perché… andavano, c’erano quei, non so… Gente che lavorava a Calliano, a Besenello che andavano a Rovereto a lavorare a piedi: si fermavano, facevano due chiacchiere…

Il procedimento di fabbricazione dei laterizi

La testimonianza del signor Rosi è fondamentale capire il modus operandi dei fabbricanti di mattoni fino al 1945, cioè a un periodo incredibilmente recente.

FOTO 4 – Mezzana con il relativo stampo per la formatura in legno e ferro.

La tecnica di fabbricazione è identica a quella in uso da svariati millenni: l’argilla veniva estratta da alcuni giacimenti vicino a stagni o laghetti (il palù a cui accenna il signor Rosi) e successivamente mescolata con sabbia dell’Adige con funzione di sgrassante, fondamentale per ridurre il ritiro (cioè la perdita di volume) durante l’essiccazione dei pezzi. A questo proposito è interessante notare che la raccolta della sabbia era illegale e andava quindi eseguita di nascosto.

La fabbricazione dei mattoni e delle mezzane era abbastanza semplice, perché era sufficiente pressare l’impasto (chiamato malta dalle maestranze trentine) nello stampo e successivamente tagliare l’argilla eccedente con un filo munito di manico ad archetto [Foto 1] per ottenere il pezzo voluto. Lo stampo era costituito da una cornice di legno sollevabile munita di fondo [Foto 4].

La produzione dei coppi era invece decisamente più complessa: per prima cosa bisognava infatti spianare l’argilla sul banco di lavoro per ottenere uno strato di spessore uguale a quello del pezzo finito. A questo punto si prendeva un primo stampo, formato da una semplice striscia di lamierino metallico sagomata a forma di trapezio molto alto e stretto [Foto 5], e con un procedimento del tutto simile a quello usato per i biscotti si ritagliava una sagoma di argilla corrispondente alla proiezione in piano del coppo finito. Si prendeva quindi un secondo attrezzo, costituito da una lunga paletta di legno tronco conica munita di manico su cui veniva appoggiato il coppo per dargli la forma definitiva.

FOTO 5 – Alcuni strumenti per la produzione di coppi e mattoni

I pezzi finiti venivano quindi sistemati in appositi soppalchi protetti da tettoie per l’essiccazione e la stagionatura: i mattoni erano sistemati in piedi, cioè per coltello, e venivano girati dopo un certo periodo per garantire un’asciugatura perfetta. Questa operazione era generalmente ripetuta tre o quattro volte a intervalli prestabiliti. I mattoni venivano probabilmente fabbricati a maggio o giugno e sottoposti a una stagionatura che poteva durare fino a due anni: è impressionante notare che i consigli di Vitruvio erano puntualmente seguiti duemila anni dopo!

I laterizi in asciugatura andavano costantemente protetti dagli animali e in particolare dai gatti, che posandosi sui coppi o sui mattoni ancora freschi avrebbero potuto deformarli irrimediabilmente.

La preparazione della fornace per la cottura era un’operazione molto lunga e complessa, che veniva eseguita solamente quando necessario: come testimonia il signor Rosi era infatti usuale eseguire una cottura solo dopo aver ricevuto abbastanza ordinazioni per riempire completamente la camera di combustione. I mattoni venivano quindi contati a numero e venduti ai costruttori sulla carta. Il combustibile utilizzato era la comune legna da ardere, il quantitativo richiesto per una singola cottura era esorbitante: ben 70 quintali. Il riempimento del forno veniva affidato ad artigiani specializzati, perché per non compromettere la qualità del prodotto finito i laterizi andavano disposti sulla suola della camera di combustione in pile ordinate, poste a una certa distanza l’una dall’altra per consentire il corretto passaggio dell’aria calda.

La cottura durava tre giorni e tre notti, durante i quali il fuoco andava costantemente sorvegliato e alimentato perché non facesse fumo: un fuoco trascurato avrebbe infatti prodotto una partita di laterizi scadenti o del tutto inutilizzabili.


Nota bene – Mi scuso fin d’ora con i miei lettori trentini per gli inevitabili errori nella trascrizione dei termini dialettali trentini, dialetto che purtroppo non conosco.

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