ANTICHI METODI DI CONSOLIDAMENTO degli architravi in pietra e mattoni
Secondo post sugli antichi metodi di consolidamento, questa volta dedicato al consolidamento di piattabande in laterizio e architravi in pietra (estremamente comuni nell’edilizia tradizionale di tessuto).
Anche in questo caso ci prenderemo in considerazione alcuni casi studio particolarmente significativi:
a) architravi monolitici in pietra ricuciti con grappe metalliche;
b) architravi monolitici in pietra “appesi” alla muratura sovrastante;
c) piattabande in mattoni con piattine metalliche all’intradosso.
Alcuni di questi sistemi sono del tutto inaffidabili e perciò vanno studiati e tutelati unicamente come preziose testimonianze dell’ingegnosità degli antichi costruttori; mentre altri possono trovare concreta applicazione nel restauro strutturale e miglioramento sismico di edifici in muratura.
I DISSESTI degli architravi in pietra e mattoni
Abbiamo già analizzato i dissesti degli architravi in pietra trattando dell’origine strutturale dell’arco senese, ma mi sembra opportuno tornare sull’argomento per una migliore comprensione di questi casi studio.
In generale la pietra non è un materiale adatto per la costruzione di architravi, cioè di strutture sollecitate principalmente a flessione, a causa della sua scarsissima resistenza a trazione.
Tuttavia spesso si trattava di una soluzione obbligata a causa della scarsità di legname adatto e della maggior semplicità (ed economicità) di questo sistema rispetto alla costruzione di un arco o una piattabanda in pietre conce.
Un architrave piano sostiene direttamente il peso e i carichi gravanti su una porzione di muratura grosso modo a forma di triangolo equilatero: questo perché i carichi verticali – definiti dall’ingegner Giovanni Cangi flussi di compressione – vengono deviati ai lati dell’apertura (Foto 1). Questo fatto era già perfettamente noto agli antichi costruttori, che escogitarono due contromisure:
a) rinforzare le porzioni centrali più sollecitate con architravi triangolari o trapezoidali (Foto 2);
b) alleggerire i carichi su di esso con un archetto di scarico o un sordino costituito da due pietre disposte alla cappuccina (Foto 3).
Tuttavia, in mancanza di questi accorgimenti o quando essi non erano sufficienti l’architrave si lesionava, spezzandosi in mezzeria o in corrispondenza di un difetto della pietra (Foto 4 e 5).
Al di sopra compariva invece una lesione di forma tendenzialmente semicircolare o parabolica (Foto 6 e 7) che forma un vero e proprio arco di scarico naturale.
CUCITURA di architravi rotti con GRAPPE DI METALLO
Un architrave in pietra gravemente lesionato non può essere sostituito senza ricorrere a complessi (e costosi) sistemi di puntellamento.
In tali casi si cercava perciò di rimediare risarcendo le lesioni della muratura e ricostruendo la continuità dell’architrave con un metodo derivato direttamente dalla costruzione degli edifici antichi in opera quadrata: la giunzione degli elementi con grappe metalliche. Si tratta di un’espediente molto utilizzato anche nel consolidamento di antiche murature con conci rotti, sostituiti o allentati: lo si nota ad esempio sulla facciata laterale del Duomo di Modena (Foto 8).
La grappa di giunzione, realizzata fuori opera, era normalmente in ferro e veniva sagomata ad U: le due ali – piuttosto corte ed a sezione quadrata o rettangolare, venivano inserite in due fori a ciascun lato della lesione; mentre la porzione centrale presentava un profilo rettangolare (Foto 9) o più raramente a doppia coda di rondine (Foto 10). L’architrave veniva preparato praticando i fori ai lati della lesione e un incavo centrale a cavallo della stessa, in cui si inseriva la grappa che veniva successivamente fissata con la malta o (assai più raramente) con una colata di piombo. La lesione era invece accuratamente stuccata e sigillata (Foto 9).
Si tratta ovviamente di un metodo insufficiente e del tutto inaffidabile sul medio-lungo periodo, perché – se i carichi non venivano ridotti – il dissesto tornava a manifestarsi riaprendo la lesione e rompendo la grappa di giunzione, soprattutto se a forma di clessidra (Foto 10).
Arhitravi lesionati APPESI alla muratura sovrastante
Un sistema più evoluto e affidabile prevedeva invece di “appendere” l’architrave lesionato alla muratura sovrastante con opportuni presidi in ferro: è quanto si nota ad esempio in una casa nel centro storico di Panzano, una frazione del comune di Greve in Chianti (Firenze), dove un architrave e la muratura immediatamente soprastante erano interessati da una vistosa lesione con andamento verticale.
Il presidio è costituito da una sbarra di ferro sagomata ad L posizionata esattamente in corrispondenza della lesione e con il lato lungo fissato alla muratura sovrastante con della malta (Foto 11 e 12). Il lato corto presenta invece una sorta di “forchetta” a due rebbi, uno per ciascun lato della lesione, che sostengono l’architrave nel punto di rottura (Foto 13).
Anche in questo caso la lesione è stuccata, mentre la continuità della muratura è stata ripristinata con una piccola sarcitura con la tecnica dello scuci-cuci (Foto 11 – frecce gialle).
L’affidabilità nel medio e lungo periodo è decisamente superiore rispetto alla semplice cucitura con grappe di giunzione ma non completa. Infatti i carichi a flessione potrebbero deformare il lato corto dell’elemento di sostegno in ferro, che di fatto si comporta come una mensola, mentre la creazione dell’arco di scarico naturale potrebbe renderne inefficiente l’ancoraggio alla muratura.
Piattabande di mattoni con RINFORZI METALLICI all’intradosso
Anche le piattabande di mattoni sono soggette ai medesimi dissesti degli architravi monolitici in pietra, tuttavia la rottura a flessione è di solito meno netta e si manifesta in corrispondenza del giunto di malta tra due conci o mattoni. Anche la resistenza è superiore, perché dal punto di vista strutturale la piattabanda si comporta come un arco, trasmettendo ai piedritti unicamente la componente verticale delle forze, e alla muratura vicina alle imposte la componente orizzontale.
Una piattabanda con luce troppo ampia manifesta tuttavia sia la rottura in mezzeria che la formazione dell’arco di scarico naturale nella muratura sovrastante.
In questi casi il consolidamento è molto semplice e prevede:
1) nei casi più gravi con perdita della geometria originaria il ripristino dell’orizzontalità della piattabanda con rinzeppatura mediante l’inserimento a forza di cunei in legno o metallo e la ristilatura profonda dei giunti di malta;
2) la stuccatura delle lesioni;
3) la trasformazione in piattabanda armata con l’apposizione di una o più piattine in ferro o acciaio all’intradosso. Si tratta di un metodo estremamente antico, già noto e utilizzato dagli antichi Romani: nel peristilio della Villa Adriana di Tivoli sono ad esempio visibili alcune piattabande armate di questo tipo (Foto 14).
Talvolta questo sistema veniva applicato anche in assenza di dissesti. Nell’architrave della finestra di un’altana del centro storico di Bologna è infatti visibile un rinforzo metallico costituito da una sbarra in ferro a sezione quadrata (Foto 11 e 12) di produzione industriale e probabilmente databile alla fine del XIX o ai primi decenni del XX secolo.
Lo schema della Foto 1 è tratto da Giovanni Cangi, Manuale del recupero strutturale antisismico.
Le Foto 2, 3, 4, 5 e 6 sono di Alessandro Ticci, che ringrazio sentitamente.
La Foto 14 è tratta dal CD-Rom allegato al libro L’edilizia nell’Antichità di Fulvio Giuliani Cairoli.