Una decorazione inedita del ‘400: il MURO DI CINTA di Palazzo dei Rossi a Sasso Marconi
Dopo la Sala dei Pappagalli di Palazzo Davanzati (superbo esempio di palazzo gentilizio medievale di Firenze) e la Rocca dei Contrari a Vignola in provincia di Modena (un castello tardomedievale perfettamente conservato), vi propongo un altro post volta relativo alle scarsissime tracce – purtroppo leggibili a fatica – della decorazione quattrocentesca affrescata sul muro di cinta del giardino di Palazzo dei Rossi a Sasso Marconi nei pressi di Bologna: dalle mie ricerche, si tratta di una decorazione completamente inedita. Anche sullo stesso edificio e il borgo agricolo attiguo, entrambi costruiti nella seconda metà del XV secolo dalla famiglia nobile locale dei Rossi, sono reperibili le poche informazioni consultabili a questo link.
L’edificio – purtroppo non visitabile perché di proprietà privata e usato per feste e cerimonie private come matrimoni o convention aziendali – ha un altissimo valore storico, artistico e culturale: una delle facciate del cortile interno conserva ad esempio una decorazione tipicamente quattrocentesca ancora integra e perfettamente leggibile (che fino a non molto tempo fa, prima che il cortile venisse completamente nascosto da un inopportuno tendone, era parzialmente visibile anche dall’esterno), con elementi architettonici come colonnine o marcapiani (Foto 6), soli raggianti, festoni vegetali (Foto 5) e scudi araldici appesi con nastri rossi svolazzanti (Foto 5). Subito a destra dell’ingresso principale, circa ad altezza d’uomo si notano inoltre vaghe tracce dell’originaria decorazione di facciata, dipinta – probabilmente a calce – direttamente sulla muratura preparata con un sottilissimo intonachino o una semplice scialbatura di latte di calce. Sono ancora leggibili tracce di bianco, giallo, rosso e probabilmente verde (Foto 7), cioè i colori canonici delle decorazioni di facciata del XIV-XV secolo. Sono invece a mala pena riconoscibili una larga fascia rossa (Foto 8), un cerchio ugualmente rosso con un’ampia bordura bianca su uno sfondo giallo ocra (Foto 9) e una campitura quadrata con possibili resti di venature a finto marmo (Foto 8): è perciò probabile che la decorazione prevedesse l’imitazione pittorica di grandi lastre di marmo, secondo uno schema di decorazione attestato in numerose città di area veneta e lombarda come Mantova, Verona, Treviso, Spilimbergo (Pordenone), Cividale del Friuli e San Vito al Tagliamento.
La decorazione del muro di cinta del giardino, più modesta, si caratterizzava invece per la presenza di due semplici partiti architettonici con oculi e archetti a tutto sesto. Altri elementi notevoli sono anche le monofore ad arco a tutto sesto delle facciate esterne decorate da ghiere modanate (Foto 3) o cornici a tortiglione (Foto 4) o la torretta in corrispondenza di uno spigolo dell’edificio (Foto 10 e 11). Anche il muro di cinta, oltre che dalla decorazione affrescata (Foto 15 e 16) era arricchito da una merlatura ghibellina (forse però non originale, ma eseguita durante un restauro “in stile” alla fine del XIX o all’inizio del XX secolo – Foto 13), una bella cornice modanata in elementi di cotto sagomato (Foto 14, 15 e 16) e da un ingresso monumentale del giardino su retro dell’edificio (Foto 14).
La DECORAZIONE INEDITA del muro di cinta
La decorazione, probabilmente coeva alla costruzione dell’edificio, si trova sul muro di cinta, vicino all’ingresso principale del giardino, su cui si leggono soltanto scarsissimi lacerti, tuttavia decisamente interessanti.
La decorazione prevedeva uno sfondo uniformemente bianco, tipico delle decorazioni quattrocentesche come ad esempio quella della loggia di Casa Romei a Ferrara, nella porzione mediana della parete, con una fascia basamentale con un fregio di qualche tipo, forse a losanghe o meandri: ritengo improbabile che potesse trattarsi di una decorazione con motivi vegetali perché le uniche pennellate conservate sono di colore rosso, mentre manca qualunque traccia di verde.
Nella parte alta si trovata invece un partito architettonico formato da una loggetta con archetti a tutto sesto, ciascuno dei quali presentava una semplice ghiera rosa con linee rosse per suggerire le fughe tra i mattoni (Foto 17): sono ancora chiaramente leggibili le tracce di tre archetti, che però, a giudicare dalle loro dimensioni, dovevano essere almeno cinque.
Sull’intonaco bianco, significativamente ad altezza d’uomo, si trova un altro elemento decisamente interessante: un graffito antico con un nodo di Gordio o sigillo di Salomone (Foto 18). Si tratta di un simbolo particolarmente diffuso già nei mosaici tardoantichi e paleocristiani: è un gomitolo formato da un numero variabile di nastri (da uno a una decina), in questo caso sei. Questi graffiti erano assai diffusi: per esempio ne ho trovato uno nelle cucine di Palazzo Davanzati e un altro su una parete di Castel Beseno in provincia di Trento. Si trattava infatti di simboli alchimici e devozionali, con due possibili significati: uno, attestato fin dall’epoca paleocristiana, di unione indissolubile tra l’Uomo e Dio (quindi simbolo dell’alleanza cristiana tra Dio e uomini); e l’altro invece, quello rinascimentale, come chiave dell’Oriente e quindi l’accesso a saperi iniziatici come la cabala o l’alchimia.
Anche sull’altro lato del muro di cinta si notano alcune tracce di un partito architettonico affrescato.
Anche in questo caso si nota uno zoccolo con tracce di rosso purtroppo illeggibili e, nella porzione sovrastante, tre archetti molto evanescenti: in questo caso la ghiera non presenta l’archivolto con i mattoni stilizzati, ma un semplice fascione rosa e all’interno una seconda fascia rossa più sottile (Foto 19) che probabilmente simboleggiava un elemento in sottosquadro, cioè rientrante rispetto al filo della muratura. Subito sopra si trova una seconda fascia rossa orizzontale, ancora abbastanza leggibile, e un tondo sempre di colore rosso (Foto 14), che dunque voleva probabilmente suggerire oculo con cornice modanata in cotto: medaglioni molto simili – che in origine contenevano ritratti, simboli allegorici, monogrammi o stemmi araldici – sono assai comuni nelle decorazioni quattrocentesche. Sopra a questo oculo corre un’altra fascia rossa che andava probabilmente a raccordarsi con la modanatura architettonica reale fatta di elementi di cotto stampati.
Siamo dunque in presenza dei resti del fregio sommitale che raccordava la teoria di archetti al coronamento del muro di cinta, di cui si notano altre piccole tracce (purtroppo troppo esigue per tentare una possibile ricostruzione) in diversi punti. Si riconoscono due fasce orizzontali rosse (una più larga inferiore e una decisamente più sottile superiore – Foto 20) su uno sfondo giallo chiaro, che – secondo le consuetudini di questo tipo di decorazioni, delimitavano il fregio sia in alto che in basso. Il fregio vero e proprio – con la sola esclusione dei resti di un singolo oculo – risulta invece completamente perduto, e dunque non è possibile fare alcuna ipotesi sul suo possibile aspetto originario. Tuttavia simili fregi – assai diffusi – normalmente comprendevano, da soli o combinati insieme:
– festoni vegetali e scudi araldici “fissati” alla parete con nastri rossi svolazzanti;
– putti e amorini;
– ritratti entro medaglioni;
– motivi vegetali come palmette o girali;
– greche o motivi a intreccio;
– motivi geometrici di cerchi, quadrati, rettangoli, esagoni, eccetera, variamente alternati;
– imitazioni pittoriche di cornici modanate.
Un’ottima idea di come potesse apparire il fregio perduto ce la offre la splendida decorazione, più o meno coeva e ancora abbastanza leggibile, di Palazzo Sanuti nella vicina frazione di Fontana di Sasso (Foto 14), che analizzeremo dettagliatamente in un futuro post.
La tecnica di esecuzione della decorazione del muro di cinta di Palazzo Rossi è l’affresco, come provano le chiare tracce del disegno preparatorio inciso eseguito con l’aiuto di un compasso. Questa prassi operativa è chiaramente testimoniata da alcune fonti del periodo: Cennino Cennini nel suo Libro dell’Arte – il più antico manuale di pittura a noi pervenuto integralmente, scritto negli ultimissimi anni del ‘300 – spiega ad esempio come si doveva “togliere il sesto”, cioè usare il compasso per disegnare le aureole dei santi o “diademe“, centrare le figure di affresco o eseguire decorazioni geometriche.