Antica panca da giardino… oppure ARCHITRAVE ROMANO DI PIETRA?

In questi giorni di inattività forzata a causa del Coronavirus – non potendo praticamente uscire all’aperto – la mia attenzione è caduta sulla panca in pietra serena del giardinetto condominiale di casa mia nel centro storico di Bologna: è sempre stata lì da quando ero bambina e nessuno sa ovviamente com’è ci è giunta.

Esaminandola più da vicino ho notato subito delle tracce di lavorazione decisamente interessanti: ho perciò eseguito un rilievo completo di dettaglio, sia geometrico che fotografico. Ho quindi elaborato le fotografie per ottenere un modello tridimensionale del blocco e un fotopiano da usare come base per studiare l’ubicazione delle tracce di lavorazione.

Il blocco è complessivamente ben conservato e ha dimensioni ragguardevoli (Foto 1): cm 285 x 45 per uno spessore di circa 13 cm. Le tracce sono di quattro tipi (Foto 2):

a) Incavi laterali – Su ciascun lato è praticato un incavo trapezoidale con dimensioni approssimative di cm 6 x 23 (Foto 3), probabilmente destinato alla sistemazione di elementi costruttivi verticali come pilastri o stipiti di un portale. Entrambi gli spigoli di questi incavi sono attualmente spezzati a causa di urti accidentali subiti da molto tempo, come dimostra il degrado (una leggera erosione superficiale) della superficie lapidea del tutto simile sia sulle facce originariamente a vista che su quelle di rottura.

b) Fori per il sollevamento e movimentazione – Sulla faccia superiore, in posizione fortemente asimmetrica (Foto 4) si trovano due fori a sezione leggermente troncoconica svasata internamente, con dimensioni superiori di circa cm 3 x 1,6, profondità di cm 4 e distanza reciproca di cm 26 (Foto 5 e 6), originariamente utilizzati per il sollevamento e movimentazione del blocco. La loro forma e dimensioni appaiono compatibili con il sistema di sollevamento a pinza interna od olivella autoserrante: all’interno del foro si inseriva infatti una tenaglia simile a quella della Foto 7, i cui bracci si divaricavano all’interno della cavità nel momento in cui il carico si sollevava.
Tuttavia la loro posizione è decisamente inconsueta, perché questo sistema – per risultare sicuro ed efficace – richiede che i fori siano praticati nel centro di gravità del blocco, cosa che in questo caso apparentemente non avviene. Possiamo dunque ipotizzare che:
– i fori siano stati praticati in posizione errata causa dell’inesperienza dello scalpellino, e che il blocco sia stato successivamente spostato con altre modalità;
– il blocco fosse originariamente più grande e sia stato accorciato e assottigliato successivamente: subito prima di metterlo in posizione oppure in occasione del reimpiego in un altro edificio: come vedremo al punto d), esiste un chiaro indizio a favore di quest’ipotesi;
– le porzioni del blocco attualmente invisibili (cioè la faccia inferiore) siano così irregolari da farne coincidere il centro di gravità con l’effettiva posizione dei fori.

c) Tracce delle grappe di fissaggio – Sempre sulla faccia superiore si notano anche cinque intagli scavati perpendicolarmente al lato lungo del blocco, con dimensioni – leggermente variabili da caso a caso – di cm 5,5-6,5 in lunghezza per 2,5-3 di larghezza e cm 0,5-1 in profondità, poste a un interasse regolare di cm 54,5-56 (Foto 8). Si tratta degli incavi destinati a contenere le grappe di fissaggio tra i blocchi: l’incavo praticato su ciascun blocco, a cui ne corrispondeva uno identico sull’altro, era a forma di L, con il lato lungo ancora visibile e il lato corto scavato in profondità nella pietra (Foto 9). All’interno di questi incavi erano collocate delle grappe di ferro lunghe circa 12 centimetri, larghe 3 e spesse 0,6-1,2, che venivano fissate colando piombo fuso, tuttora perfettamente visibile e riconoscibile grazie al suo colore grigio chiaro: si tratta di un metodo di fissaggio molto efficace, perché il metallo fuso riempiva perfettamente tutti gli interstizi tra il ferro e la pietra, avviluppando la grappa e bloccandola perfettamente (Foto 10). Delle grappe si conserva invece solamente il lato corto, tuttora infisso nell’incavo e segato per recuperare il ferro della grappa, che nel Medioevo era considerato così prezioso da rendere conveniente questa operazione: l’asportazione venne compiuta probabilmente con martello e scalpello, come dimostrano le tracce di profondi tagli nel piombo di uno degli incavi (Foto 11). Le dimensioni della sezione delle grappe sono variabili: quattro su cinque di cm 3 x 0,6 (Foto 12) e una di cm 3 x 1,2 (Foto 13).

d) Finitura superficiale e anatirosi – Le facce laterali dei lati lunghi del blocco hanno una lavorazione differente.
La faccia anteriore si presenta infatti abbastanza levigata, e perciò in origine era stata semplicemente tagliata con una sega da pietra e sottoposta a una lavorazione superficiale non più leggibile a causa dell’erosione (Foto 14). La faccia posteriore mostra invece un nastrino di bordatura alto circa 3 centimetri che delimita una zona con un bugnato molto grossolano caratterizzato da una profonda serie di linee parallele inclinate a 60° e con passo di circa 3 cm, ricavate incidendo profondamente la pietra con subbia e martello (Foto 15): come sostiene l’archeologo Jean-Pierre Adam, si trattava probabilmente della faccia del blocco destinata a rimanere in vista. Questa particolare lavorazione consente inoltre di ipotizzare che molto probabilmente in origine il blocco era decisamente più spesso, perché l’attuale bordo inferiore, sebbene molto eroso, non mostra la minima traccia del nastrino di bordatura.
Uno dei lati corti, sebbene caratterizzato da una forte erosione, sembra invece mostrare la cosiddetta anatirosi (Foto 16), cioè una lavorazione riservata alle facce di giunzione con altri blocchi e caratterizzata da una zona perimetrale levigata con cura per garantire una superficie di contatto tra i blocchi precisa e accurata, e la zona centrale semplicemente sgrossata in sottosquadro a martello e scalpello. Le varie lavorazioni sulle facce del medesimo blocco sono ben riassunte dalla Foto 17 tratta dal libro di Jeanne-Pierre Adam.

Ipotesi di datazione e riutilizzo

A causa della completa assenza di epigrafi risulta molto difficile datare il blocco con sicurezza. Tuttavia la consultazione del libro “L’arte di costruire presso i Romani. Materiali e tecniche” di Jean-Pierre Adam ha confermato che tutte le tracce di lavorazione sono compatibili al 100% con le pratiche di cantiere usate dagli antichi Romani e rimaste praticamente invariate anche nel Medioevo.
Il blocco potrebbe dunque aver fatto parte di un edificio romano (forse del podio basamentale di un tempio o un edificio pubblico: non troppo distante si trovava ad esempio il teatro dell’antica Bononia) ed essere stato riutilizzato previa rilavorazione durante il Medioevo come soglia o architrave: l’asportazione delle grappe metalliche, il probabile accorciamento e assottigliamento del blocco e l’esecuzione dei due incavi laterali sono elementi a favore di questa ipotesi.

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